1994 – Appunti di viaggio

Le richieste che, per lunga tradizione, rivolgiamo alla fotografia sono, in particolare, due: da una parte un profondo

ancoraggio alla realtà e, dall’altra, una forte capacità di sorprenderci. E’ un atteggiamento diverso da quello che ci

suscita la pittura ed è atteggiamento che parla appunto della diversità dei mezzi e dei linguaggi.

Nulla, in una fotografia, è più fastidioso ed irritante di una inquadratura oleografica, di una composizione in qualche

modo avvertita come pittorica.  Ne sospettiamo e la chiamiamo “cartolina illustrata”, cioè immagine non solo dell’ovvio

ma soprattutto del “falso”, dell’inautentico”. Perchè, per definizione “autentico” in una fotografia, è solo l’attimo che

coglie il frammento, l’istante che rompe la continuità e la durata; “vero” è lo sguardo – il “clic” – che frattura la crosta

del visibile e dà visione dell’inusuale, sorprendente del mondo e del nostro inquieto trovarci e riconoscerci

(come diceva Valèry e ripeteva Sciascia) “ignoti a noi stessi”

Con l’azione dei suoi decimi di secondo, la fotografia uccide la “posa” che svaluta come artificio e menzogna. 

Perciò essa occupa una zona lontana, magari opposta, a quella della pittura; una zona che è al confine e forse invade

quella del teatro, del palcoscenico. Nell’istantanea fotografica, infatti, la realtà e gli uomini danno involontario spettacolo

del loro inconsapevole mostrarsi, e tuttavia autentico spettacolo: sorprendente, inusuale, anche innaturale, come se

il bagliore del flash ogni volta illuminasse per un attimo l’inconscio e svelasse maschere sotterranee, paure nascoste,

nudità e ipocrisie sociali. 

Grande è quel fotografo che sa percorrere con pietà e complicità un così terribile esercizio di crudeltà che sempre

sfiora e rischia di precipitare nel cinismo.

In questa mostra non mancano esempi di un tale amoroso esercizio. Lascio allo spettatore, com’è giusto, il piacere di cercarli, di trovarli.

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